La tradizione di utilizzare oggetti recuperati per trasformarli in opera d’arte parte dal 1917, quando Marcel Duchamp espone in un’importante mostra pubblica a New York un orinatoio capovolto, firmato con uno pseudonimo e intitolato Fontana. Una provocazione che aprì la strada al concetto di ready made, oggetto trovato e molto spesso recuperato, che una volta inserito in un contesto artistico può assumere significati politici, sociali e commerciali.
Il vagare tra oggetti in disuso e materiali abbandonati porta Eva Gerd ad interpretare gli scarti della natura e del destino della vita, finiti per il loro corso naturale oppure danneggiati dall’usura del tempo, pronti per un uso indipendente o come elementi, tasselli di un progetto più grande, come singolarità potenziali per essere elevati nel loro insieme, sotto la mano dell’artista, al mondo dell’arte contemporanea diventando opera.
L’idea della trasformazione, del riuso e del recupero è quanto di più duttile ci sia, e si offre a illimitate varianti. Non occorre produrre continuamente ‘altro’, che sia possibile rigenerare ciò che c’è; via dalla logica dell’usa e getta praticata senza attenzione dalla cultura consumistica. Ma non è solo questo: sottrarre allo scarto definitivo e prolungare la vita di ciò che pareva aver concluso il suo ciclo vitale ed economico è atto poetico per eccellenza.
Eva Gerd è una sognatrice ad occhi aperti che vede nella miriade di queste occasioni mancate quotidianamente un riuso che possa diventare di natura estetica, “oggetti trovati”, reperti usciti dal mondo di natura o da quello degli utensili e caratterizzati da un qualche grado di bizzarria, stranezza, forza di impatto sensoriale; oggetti, in ogni caso, esteticamente rilevanti, in quanto capaci di stimolare in noi la reazione del bello, del brutto, del sublime, del volgare, del ributtante, del provocante. Dall’artistico, in questi casi si passa all’antiartistico, laddove l’artista, per sua stessa natura, punta all’antiartistico, o forse meglio ancora all’anestetico; si ripromette, quasi per scommessa, di proporre come oggetto esteticamente rilevante un prodotto banalissimo di serie che sembrerebbe essere il più possibile anonimo e irrilevante. Così facendo, l’artista che distrugge ogni residua fiducia nelle qualità oggettive del valore artistico-estetico, vuole invece dimostrare che esso è il frutto di una convenzione, o quasi di un’autodichiarazione; basta volerlo, emanare una “intenzione” in tal senso, e tutto può divenire “opera d’arte”, il che è, ancora una volta, un modo per rinforzare la dimensione noetica. Quello che conta, è il coefficiente mentale che permettiamo a qualsivoglia esperienza, la quale può seguire il suo normale decorso pratico-utilitario, ma può anche essere dirottata, “straniata” su altri binari, e allora, anche senza che nulla muti nel suo assetto fisico, essa entra nella sfera del valore estetico.
Patrick Mimran ha scritto che “l’arte è oggi dove non ti aspetti di trovarla”, e Eva Gerd invece è ben consapevole dove trovare ciò che diverrà la sua arte. Ed allora subentra il pensiero che scaturisce l’idea della concretezza del tutto, le opere si presentano come installazioni costituite da un insieme che racconta se stesso, assumendo altre sembianze.
L’artista da alcuni anni e oggi più che mai, si dà a riflessioni serie, pensa alla fine degli oggetti che li hanno portati verso la “morte”. Non che non ci abbia mai pensato ma questa volta lo fa in modo chiaro e diretto. “La morte è un soggetto straordinario, l’unico che abbia lo stesso peso della vita. Se vuoi parlare della vita devi pensare prima alla morte”, diceva Maurizio Cattelan. Noi essere umani siamo forse le uniche creature intimamente consapevoli del fatto che dovranno morire, anche quando la morte non è imminente, questo fa in modo che Eva pensi alla creazione come una messa in opera che diventa l’inizio della morte di quella idea progettuale che esternandosi, cioè prendendo forma e diventando installazione, inizia un suo processo autonomo, una nuova vita. Questo fa venire meno l’intimità propria, avviene come un rifiuto, non la si riconosce, scaturita dall’interiorizzarsi della mente decade come ogni forma di vita. Il visitatore che si trova di fronte al lavoro, deve contribuire al suo rinascere dall’inutilità della materia. Durante la realizzazione avviene una perdita della centralità, il racconto, molto spesso ispirato da avvenimenti reali, è affrontato da subito mantenendo una certa distanza, in modo che il fine ultimo del lavoro si concretizzi attraverso i molteplici soggetti che gravitano ai margini, sfiorandone appena la verità ed allontanandosi premeditatamente dall’accaduto, il tutto cambia la forma.
Il risultato che si avverte è un insieme abbandonato, scomposto, inadeguato, un caos lieve che nasce, invece, da un calcolo ordinato, un disordine organizzato, un’anarchia da assimilare. Forse è tempo di fare meno rumore, infatti è un lavoro silenzioso, che bisognerebbe osservare con un po’ di raccoglimento. Un concetto che esprime un senso di fragilità, di dispersione, oggetti indifesi e sfiniti, così disgregati ed inermi da sembrare che nulla si possa più fare per loro, ma tutto è semplicemente apparente. La forza delle installazioni è invincibile e nasce proprio da questo arrendersi, proprio in questo subire attivo, è come se dicessero: “stiamo generando nella nostra completezza un’opera unica”.
Il fine, diventa un enigma, le opere sono collegamenti, è come se ci fosse un cuore, una centralità e tutto corre intorno ad un disordine organizzato che si trasforma dove non c’è possibilità di errore. L’arte è anche questo, la cura artigianale che prolunga l’esistenza in opposizione alla mercificazione diffusa. Noi moriremo, ma l’arte resterà.
Enrico Mattei
per il catalogo in occasione della mostra alla Barbara Paci galleria d’arte, Pietrasanta 2012